Visitare i Monti Dauni è autentico turismo esperienziale, in cui anche una gita mordi e fuggi diventa “esperienza”.
Trascorrere una giornata a Castelluccio Valmaggiore, Faeto e Celle San Vito significa uscire dai parametri del tempo e dello spazio per ricaricarsi di un’altra energia. Quello che è successo a me scegliendo di scrivere, per una volta, in prima persona.
Antichi borghi medioevali che fondono però le loro radici in epoche molto più antiche da quelle bizantine. Radicato il passaggio sannita.
Fermi, sospesi nel blu, come le lancette dell’antico orologio della torretta a Faeto tra via Roma e Belvedere, si arriva in questi tre comuni attraversando lunghe distese verdi. E come una pallina da golf ci si perde seguendo le onde di vari orizzonti, ipnotizzati dal movimento selciato delle imponenti pale eoliche onnipresenti nel loro panta rei.
Un limbo che annulla le coordinate dello spazio, tanto da sentirsi errante al pari di uno straniero nella tua regione. Qui sembra di essere su un altro pianeta in cui l’umano non detta legge e non impone nulla: è parte del tutto.
Una curiosità bucolica ti pervade e senza farsi domande, quasi per inerzia, ti spinge a percorrere quelle lunghe strade, a tratti dissestate, cullandoti verso l’abbandono. Si è circondati da sola natura, affastellata, che sembra chiudersi al tuo passaggio, come un magico portale che ti porta nell’ignoto.
Raramente si incrociano macchine, qualche veicolo agricolo semmai. Inesistenti le stazioni di servizio per fare carburante, tantomeno colonnine Sos. Eppure si respira fiducia e si continua senza “lasciare nessuna speranza”.
A farti compagnia sono i raggi del sole che se vi trovate a vivere questi posti in giornate fortunate e calde, vi solcheranno il volto in una luce di taglio. Prendi subito il cellulare, come da abitudine moderna e freneticamente cerchi di immortalare. Vince lei, la luce accecante e sfuggente. Perché sono attimi. La luce tra gli alberi è una cura per l’anima, lo ha stabilito la scienza con numerose ricerche sulla psiche. I giapponesi la chiamano komorebi. Avere il privilegio di gioire della loro fuggevole presenza insegna che nulla, neppure il dolore dura a lungo.
Folti boschi che regalano a chi li attraversa benessere, perché non sono delle illusioni. La luce che si infiltra tra le foglie arriva ai nostri occhi per rimbalzare sulla coscienza, per dirci quanto fuggevole è la nostra esistenza.
Le distanze sono ampie, questi borghi piccoli con pochi abitanti, sono molto tranquilli. Sembrano disabitati eppure la presenza di macchine, di forni in attività, di chiese aperte indica il contrario. Tutto è discreto, essenziale, la morbosità così invadente di oggi, qui non si avverte. Non è indifferenza mista a cinismo, ma fare civile ed educato.
A Castelluccio Valmaggiore si può visitare il Museo della Valle del Celone che testimonia come le risorse naturali hanno sempre inciso sulla dinamica delle popolazioni che l’hanno attraversato nei secoli con la presenza di diorami. Sono inoltri esposti reperti che vanno dal VI secolo a.C. al V secolo d. C. scoperti nella necropoli di masseria Festa e nella necropoli di Vigna Masci. In antichità il borgo aveva una forma di triangolo isoscele, chiuso da una cinta muraria con due porte, dette del Pozzo a Occidente e del Piscero a Oriente. Al vertice un castello bizantino, edificato nell’anno mille, di cui rimane una delle Torri, alta 20 metri.
Borghi che si prestano al turismo esperienziale per viaggiatori in cerca di consapevolezza. Perdersi nei sentieri naturalistici, tra vicoli e archi, degustando prodotti tipici locali. Faeto è noto per le due sagre, del maiale nero e del prosciutto.
Tanta bellezza ammirata dai loro belvedere, vere porte aperte nel cielo. Terre attraversate da pellegrini, da briganti e da santi. Prima soldati pagani e poi martiri cristiani.
La chiesa di San Salvatore a Faeto custodisce all’interno le reliquie di San Prospero. Celle San Vito che prende il nome di un altro Santo onorato con un santuario nei boschi e Santa Caterina d’Alessandria a cui è dedicata la chiesa Madre.
Due piccoli paesi che costituiscono l’unica minoranza francoprovenzale dell’Italia meridionale. Proprio a Faeto si possono visitare: il Museo etnografico della civiltà francoprovenzale e il Museo civico del territorio. Entrambi situati nella quattrocentesca Casa del Capitano.
La presenza della via Francigena nei boschi vicino la Casa del Pellegrino con il suo ruscello testimonia come da secoli sia diffuso qui il culto micaelico in onore del principe venerato nel vicino Gargano nel santuario di Monte Sant’Angelo.
Qui, a confine tra Rocchetta Sant’Antonio e Candela, si narra fosse scappato il diavolo per nascondersi dalla spada dell’arcangelo e attratto dalla comodità della valle avesse fatto i suoi ‘bisogni’ che magicamente trasformò in pietre. Si tratta della catena rocciosa che collega la zona dell’Ofanto al monolite di Preta Longa, passando per Murgia Spaccata e l’area di Caca Riavule. Nome che deriva appunto da ‘caca diavolo’.
Siamo in una delle due estremità della Puglia, a confine con altre regioni. La loro influenza si sente. Terre magiche che conducevano alla Terra Santa. Tante le civiltà passate.
Tutto è fermo, avvolto in una luce quasi ancestrale. Boschi folti che racchiudono e veicolano antiche forze in un’Arcadia qui del tutto non persa, perché non corrotta dal progresso.
Luoghi vissuti nella preistoria. Sulla collina a sud est di Biccari si trova uno dei siti più importanti del Neolitico, periodo VI millennio a.C., in località Serra di Cristo. Testimonianza di villaggi stagionali dell’epoca. Nota agli archeologi la “signora neolitica di Biccari”, ritrovata in una grotta con un ricco corredo funerario insieme a resti di animali. Simili insediamenti, ma risalenti al V millennio a.C. sono stati ritrovati in Località Boschetto, lungo la riva destra del Canale Organo. Tutti territori dell’Ager Lucerinus.
L’area naturale di Biccari è ricca di boschi incontaminati, dove si può trovare lo ‘Scorzone’ o tartufo d’estate. Da visitare il Lago Pescara, scoperto dagli Japigi.
La biodiversità dei Monti Dauni è tra le più importanti del Sud d’Italia. La selvatichezza del Lupo appenninico, dei rapaci mista alla pacatezza dei ricci, dei ghiri.
Colline e vallate in cui si respira ancora il culto del dio Pan, divinità della mitologia greca, satiro controverso da cui prende il nome un altro borgo vicino, Panni. Antiche credenze popolari agresti ancora narrate in questi luoghi raccontano delle Janare, streghe della vicina Benevento. Il nome derivava forse da Dianara, la sacerdotessa di Diana, dea romana della Luna, oppure dal latino ianua, porta.
Cultura che si ritrova nelle loro antiche usanze, come quella di mettere davanti alla porta una scopa rivolta verso l’alto, un sacchetto di sale o una forbice con le lame aperte appesa. Uno stratagemma per allontanare le janare che di notte erano solite vagare per compiere furti di animali o riti. La loro curiosità verso questi oggetti sarebbe stata tale da indurle a contare le setole della scopa o i granelli di sale fino al sorgere del sole, la cui luce pare fosse la loro mortale nemica. Segno del loro passaggio nella notte era trovare le criniere dei cavalli intrecciati.
Un altro racconto narrato dagli anziani è quello di avvertire la presenza di queste streghe durante il sonno, in preda a un soffocamento improvviso. A tale stato d’ansia, non bisogna reagire svegliandosi ma in modo lesto afferrarle per i capelli. A quel punto le janare chiederanno: “che tienn a man?” e si dovrà rispondere: “Fierro e acciaio”. La loro paura di vedersi tagliare i capelli è tale che improvvisamente si volatizzeranno.
Una cultura mista a leggende a cui ancora oggi si cerca di tramandare quel sapore antico alle nuove generazioni, per non dimenticare. Così i loro bimbi sanno chi sono gli scazzamaurielli, i folletti e spiritelli dispettosi. Un modo per fortificarsi ed esorcizzare la paura e nello stesso tempo continuare a coltivare empatia che un mondo sempre più artificiale sta spegnendo sostituendolo con il nulla.
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